Ma prova a immaginarlo: ogni commento che scrivi — anche il più banale — ti costa 10 centesimi.
“Cringe”, “che schifo”, “fate pena”… lo scriveresti ancora, sapendo che ti verrà addebitato sulla carta?
Questa non è una notizia, è una provocazione. Ma una provocazione utile. Perché ci aiuta a riflettere su come stiamo usando (o abusando) della libertà di parola sui social.
In questo articolo abbiamo analizzato il tema da un altro punto di vista: e se commentare online avesse davvero un prezzo? Cosa cambierebbe nel modo in cui ci esprimiamo, nel rapporto tra brand e utenti, e — soprattutto — nella nostra responsabilità digitale?
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Il paradosso dell’interazione: tutti possono parlare, ma nessuno si assume la responsabilità
La democratizzazione della parola online ha dato voce a tutti.
Ma attenzione: libertà di espressione non è sinonimo di libertà di aggressione.
Dietro uno schermo, con un avatar qualunque, scrivere “che schifo” è facile. Nessun confronto, nessun filtro, nessuna conseguenza.
E così, giorno dopo giorno, brand, ristoratori, artisti, professionisti e piccole attività si trovano a dover “moderare” qualcosa che in altri contesti non sarebbe nemmeno accettabile in pubblico.
Eppure, quello spazio è pubblico. È un feed, una vetrina, un biglietto da visita.
Chi commenta, spesso dimentica che scrivere qualcosa online è un atto permanente, visibile, indicizzabile e — in certi casi — persino legale.
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E se i social fossero la vita reale?
Facciamo un esperimento mentale.
Immagina che ogni commento che scrivi venga:
- Stampato in bella vista e affisso fuori casa tua
- Firmato con nome e cognome
- Letto ad alta voce durante la riunione del lunedì mattina
- Consegnato al tuo prossimo recruiter
Ancora convinto che valga la pena dire “ridicolo”, “pagliacci”, “mi fate pena”?
Questo esercizio serve per ricordare una cosa semplice:
la comunicazione digitale è comunicazione, punto.
Non esiste un codice etico parallelo per i social. Se nella vita reale non diresti una cosa, non c’è motivo di scriverla online.
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E se i social fossero la vita reale?
Facciamo un esperimento mentale.
Immagina che ogni commento che scrivi venga:
- Stampato in bella vista e affisso fuori casa tua
- Firmato con nome e cognome
- Letto ad alta voce durante la riunione del lunedì mattina
- Consegnato al tuo prossimo recruiter
Ancora convinto che valga la pena dire “ridicolo”, “pagliacci”, “mi fate pena”?
Questo esercizio serve per ricordare una cosa semplice:
la comunicazione digitale è comunicazione, punto.
Non esiste un codice etico parallelo per i social. Se nella vita reale non diresti una cosa, non c’è motivo di scriverla online.

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Il costo (vero) dei commenti
No, non parliamo di un micropagamento. Ma ogni commento ha comunque un prezzo:
- Per chi lo riceve: in termini di reputazione, di fiducia e persino di salute mentale.
- Per chi lo legge: perché influenza la percezione pubblica di un brand o di una persona.
- Per chi lo scrive: perché rimane visibile, registrato e — spesso — associato alla propria identità digitale.
Oggi molti brand, aziende e figure pubbliche stanno cominciando a limitare o disattivare i commenti, non per censura, ma per protezione.
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In conclusione: ogni commento conta, anche quando pensi di no
Ogni parola scritta online costruisce (o distrugge) qualcosa.
Un brand, una relazione, una reputazione, una percezione.
Commentare con leggerezza oggi è come scrivere su un muro pensando che nessuno passerà a leggere. Ma quel muro è sotto gli occhi di tutti. Sempre.
Prova a chiederti: scriverei ancora questa frase se fosse visibile fuori dalla mia porta, con il mio nome e cognome accanto?
Se la risposta è no, forse non vale la pena nemmeno cliccare “Invia”.















